LUOGHI, MICROSTORIE

Prima monastero poi osteria.
La storia infinita dell’Eremo Nuovo

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Eremo Nuovo

È il cantuccio più remoto ed appartato di questa zona montana; una delle località più impervie, di difficile accesso e delle più lontane, dove d’inverno la neve sorpassa i due metri.

La penna di Umberto Console descrive così l’Eremo Nuovo fino agli anni ’30 del Novecento. Maestro elementare e cronista locale dell’Alta Valle del Savio per diversi giornali dell’epoca, presentava con queste parole la zona considerata il primo insediamento nella valle del Bidente di Pietrapazza. Una località a 734 metri slm, il cui toponimo lascia intendere il forte passato religioso che ha caratterizzato questo luogo fin dal XII secolo, quando il possedimento di terra affidato al priore di Camaldoli venne spostato qui da Strabatenza per contrastare l’avanzata verso i territori romagnoli della “vicina” abbazia di Prataglia. Ma l’Eremo Nuovo, rimasto ancorato al suo primo nome, ha subito profondi cambiamenti dalla sua nascita a oggi. Pur restando di proprietà dei Camaldolesi, come riportato nel libro “La gente di Pietrapazza” di Claudio Bignami e Alessio Boattini, dalla metà del 1500 cambia pelle, esaurisce le sue funzioni religiose e diventa una località divisa in più poderi, in cui sono state registrate fino a sette case e dove si sono succedute numerose famiglie prima dell’ultima, i Rossi, che lo hanno abbandonato definitivamente nel 1963 dopo avervi vissuto per oltre un secolo. Da quel momento l’essere umano ha lasciato per sempre le abitazioni presenti per farci ritorno spinto dalla curiosità, dall’escursione della domenica, dalla necessità di riconnettersi ad un ambiente puro e rigenerante, scandito da un tempo che guarda al passato. Un passato che ci restituisce ben poco: una casa colonica e un capanno che niente hanno a che fare con l’impronta spirituale lasciata dai camaldolesi, o forse sì. In tal senso non ci sono certezze, ma pare che a segnare la presenza dei monaci camaldolesi, nei quattro secoli di permanenza, si trovasse il monastero di San Pietro e San Benedetto, che col tempo ha lasciato il posto all’oratorio (indicato sulle mappe come Chiesina), di cui oggi rimangono solo le fondamenta e il brandello di una parete.

Ciò che è ancora in piedi sono invece le due strutture realizzate al posto della vecchia casa distrutta dalla frana del 1853. Nel 1870 sotto l’intraprendenza dei Rossi che avevano collaborato alla costruzione della nuova casa visibile ancora adesso, una stanza venne trasformata in rivendita di vino che prese presto il nome di Osteria dell’Ermonovo, frequentata soprattutto da chi effettuava lavori nella foresta e dai viandanti per affari. Nel 1908 termina la proprietà dei camaldolesi dopo ottocento anni. I monaci vendettero infatti il loro podere ai Milanesi di Cà di Pasquino e nel 1914 la famiglia Rossi, che finora vi aveva vissuto in enfiteusi, ne acquistò una metà. Nei loro confronti iniziò l’antipatia dei Milanesi. Questi ultimi erano diffidenti riguardo ai nuovi proprietari e controllavano continuamente la loro attività. Come nelle migliori tradizioni, una giovane Milanesi si innamorò di un coetaneo della famiglia rivale, ma i genitori fecero in modo di separarli, impedendo di fatto il fidanzamento.

Tornando alle parole iniziali di Console, oggi raggiungere questa località è più semplice: si può proseguire lungo la strada che attraversa Casanova dell’Alpe per chi preferisce restare comodo in macchina, oppure si può percorrere il sentiero 205, che parte da sopra la chiesa di Sant’Eufemia a Pietrapazza, della durata di un’ora, o ancora, arrivarci dal Nocicchio (Passo dei Mandrioli). Dopo anni di storie di ogni tipo, è tornata la pace all’Eremo Nuovo. Si è riappropriato dello stesso silenzio che l’avvolgeva mille anni fa, e anche se non c’è nessun eremita a riempire le sue giornate, non manca chi raggiunge il cantuccio più antico di questa parte di montagna per riavvolgere il nastro e ripensare alla primordiale esistenza di uomini e donne che hanno saputo resistere a qualsiasi condizione di vita.

Dove si trova:

Si può raggiungere seguendo i sentieri CAI

Articolo a cura di

Lucia Caselli

Giornalista pubblicista, collabora con il Resto del Carlino. Appassionata di storia locale, rovine e luoghi abbandonati, ne scrive sul suo blog www.nonsoloruderi.wordpress.com.